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Mina Mazzotti/Ël can anàrchich/Il cane anarchico

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Artorn

IL CANE ANARCHICO

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Un po’ di anni fa, sotto le feste di Natale, sono andata al negozio della mia amica Mariuccia.
Lei ha cura anche dei cani abbandonati. Sulla parete dietro al banco, c’era la foto di un cane marroncino, un po’ arruffato ma con due occhi come un umano.
Mariuccia mi ha detto:
«Il proprietario di questo cane si deve trasferire, non può più tenerlo, lo vuole sopprimere. Portalo a casa tua per un paio di settimane. Dopo le Feste troverò il modo per sistemarlo, ho tanti clienti e conosco tanta gente».
Io avevo già un cane, ma per farle un favore l’ho portato a casa.
E così quel «paio di settimane» sono diventate diciotto anni.
Appena a casa quel cane mi guardava con quegli occhi umani che parlavano. Io volevo chiamarlo Oscar, ma mio marito ha detto che non stava bene dargli il nome del Presidente della Repubblica, allora l’ho chiamato Arturo, proprio come un umano.
Ho capito subito perchè avevano abbandonato quell’animale: era un disgraziato che appena poteva scappava. Io lo chiamavo, urlavo come una matta, ma lui scappava più velocemente.
Non andava lontano, faceva appena il giro dell’isolato. Bisogna sapere che dove abito io, sono tutte villette, e tutti hanno il cane. Quel disgraziato passava tranquillo davanti al cancello di tutte le case, tirava su la zampa posteriore e faceva una pisciatina. Potete immaginare il baccano che facevano gli alti cani!
Come tornava a casa[1], io regolarmente gli davo un calcio nel sedere, ma lui come niente: mi guardava con aria di sfida, teneva la coda dritta, che per i cani significa «comando io».
Un giorno, per la disperazione, l’ho chiuso fuori sul balcone della mia camera da letto e sono andata a fare una commissione di una decina di minuti. Quando sono tornata quel bastardo non c’era più: si era buttato giù, mi aveva fracassato il vaso dei gerani che c’era sotto ed era scappato.
Dopo un paio d’ore è arrivato tutto insanguinato. Io non avevo a casa l’auto e ho dovuto chiamare sul lavoro mia figlia per portarlo subito dalla veterinaria. E così da quella volta, i suoi colleghi la chiamano «quella del cane paracadutista».
Mio marito ha fatto tutti i ripari immaginabili sulla recinzione della casa, ma lui come niente: quando aveva voglia di scappare nessuno lo teneva.
Usava una tecnica tutta sua: infilava una zampa attraverso le sbarre della recinzione, poi faceva passare la testa, pian piano si tirava dietro l’altra zampa e il resto del corpo (intanto si sentivano scricchiolare tutte le ossa) e poi via che andava velocissimo[2]. Era proprio una disperazione.

Una volta siamo andati tre o quattro giorni ad Amsterdam con tutta la famiglia. Vicino al nostro albergo c’era un negozio e in vetrina erano esposti: catene, collari coi chiodi, fruste, insomma tutte quelle cose lì.
Ogni volta che passavamo davanti, mio marito si fermava a curiosare e noi gli dicevamo: «Brutto maiale, alla tua età ti fa male…!».
Appena siamo tornati a casa, lui è sparito nello scantinato, dove tiene tutto il suo armamentario.
Io dal piano superiore sentivo che segava, picchiava, faceva un chiasso infernale.
Dopo un po’ vedo arrivare l’Arturo con un bel collare fatto con un tubo rigido di plastica, segato un tre centimetri, ogni due dita aveva piantato a raggiera dei chiodi con la punta girata all’infuori.
Dietro all’Arturo c’era mio marito tutto soddisfatto il quale ha detto: «Ora voglio proprio vedere se è capace di scappare ancora, non riesce più a passare attraverso le sbarre, il collare lo blocca».
Solo che quel sistema lì, abbiamo capito subito che era un impiccio poiché con quei chiodi rigava tutti i mobili e ci pelava le gambe quando ci passava vicino.
Allora quel cervello fino di mio marito gli ha piantato su ogni chiodo del collare un tappo di sughero, quello che si usa per imbottigliare il vino.
L’Arturo ora somigliava proprio alla Lucia Mondella dei «Promessi Sposi» con quella enorme raggiera intorno alla testa. Tutti quelli che passavano sulla strada guardavano quel cane così conciato e chissà perchè… ridevano!
Ogni tanto riusciva ugualmente a scappare quando noi ci dimenticavamo di chiudere a chiave il cancello, poiché lui aveva imparato a tirarsi in piedi e a schiacciare la maniglia con la zampa.
Ha imparato ad aprire tutte le porte di casa ed andava dentro e fuori, su e giù come voleva.
Quella bestiaccia ogni momento ne combinava una sempre nuova.
Nel circondario lo conoscevano tutti… un giorno si è persino presentato in chiesa!
Certe volte non ne potevo più e mi veniva voglia di strozzarlo. Per raccontarle tutte non basterebbe un libro.

E così sono passati gli anni. L’Arturo pian piano si è acquietato.
Poi è diventato un po’ sordo, gli è venuta la cataratta e ci vedeva poco, quando cercava di salire le scale faticava e non riusciva più ad aprire le porte.
La veterinaria l’ha curato bene fin che ha potuto ma un giorno ha sparato la sentenza: «È meglio sopprimerlo. Ha le reni che ormai non rispondono più alle cure, è inutile farlo soffrire».
Io ho ingoiato un magone grosso come una casa. Mentre lei gli praticava l’iniezione, gli ho tenuto una zampa e gli carezzavo la testa. Gli ho detto: «Ciao amico di tante avventure, ti ho voluto tanto bene anche se sei stato una disperazione, forse perchè sei stato un anarchico, un po’ come me».
Mio marito ha scavato una buca nell’angolo del giardino dove a lui piaceva stare a curiosare quelli che passavano, e le mie nipotine hanno piantato i fiori.
Io ho detto: «Basta, non voglio più saperne di cani».

Poi una casa senza peli di cane in giro non mi sembrava neanche una casa e dopo una settimana è arrivata la Lilli.
La Lilli è una pecora. Al canile mi hanno detto che era tranquilla, ed è vero. Mi hanno anche detto che era un setter, ma secondo me è un «otter» poiché ha il pelo tutto a colori.
Fa festa a tutti e non è neanche capace di abbaiare. Mi sta sempre vicino, non mi abbandona mai. È obbediente e non ha mai fatto un guaio. A qualsiasi ora io torno a casa, lei mi porta una foglia per farmi un regalo, io la accarezzo e allora mi salta addosso e cerca di leccarmi la faccia, vuole baciarmi.
Io le voglio bene.
Ma mai come al mio cane anarchico…
…Forse perchè era un po’ come me.

  1. Lett.: «Come veniva al chiaro», cioè «come ricompariva»
  2. Il significato letterale di questo paragone è dubbio: per alcuni «come un lacchè» (servitore che precedeva la carrozza del padrone correndo), per qualche altro «come un levriero».