Luigi Ceresa/La ricèta/La ricèta

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Artorn


LA RICETTA[modifiché]

Di solito non vado mai dal dottore, l’ultima volta è stata più di un anno fa; la ricordo ancora come un incubo; ero andato per farmi prescrivere le medicine per mia nonna. La sala d’aspetto era piena di gente e tutti parlavano contemporaneamente: un indisponente elencava tutte le sue malattie dal mal di schiena alla diarrea, dall’herpes alla cefalea; un altro discuteva animatamente di politica; chi si lamentava dei prezzi del pane o della carne; i bambini ai primi passi piagnucolavano, quelli più grandi giocavano a nascondino o a prendersi fra l’indifferenza delle loro mamme che discutevano su quanto lardo bisogna usare per cucinare la paniscia.
Insomma un tormento, un fracasso, una confusione durata più di un’ora.
Quando è arrivato il mio turno sono entrato nello studio con un mal di testa da impazzire e un gran nervoso; mi sono fatto prescrivere delle pastiglie calmanti e per di più mi sono dimenticato di quelle per mia nonna.
Ora con l’età compaiono vari acciacchi, devo andare a farmi visitare; è un bel fastidio, ma lo devo affrontare; sono molto nervoso.
Quando entro pronto a fare la solita fila: miracolo, non c’è nessuno; solo un vecchietto che aspetta il suo turno. Lo saluto, mi risponde con un buongiorno; mi siedo accanto a lui.
Pochi minuti ed entra un giovanotto alto di statura, con i capelli lunghi; con la faccia annoiata, senza guardarci dice: «Salve». Rispondo «Buongiorno», ma quel salve mi dà fastidio.
Oggi è di moda dire così, ma a me non piace per niente.
Si siede di fronte a noi e… «Chi è l’ultimo?» chiede con una faccia da ottuso.
Come chi è l’ultimo, ma se siamo qui in due, cosa ti importa sapere se sono prima io o l’altro signore. Potrei capire se ci fossero una ventina di persone ti potrebbe fare comodo sapere chi è l’ultimo e fare riferimento solo su di lui. Ma con due persone due davanti a te non ci vuole un grande sforzo per capire quando è il tuo turno!
«Avanti il prossimo». È la voce dolcissima della dottoressa; il vecchietto si alza ed entra per la visita.
Il giovane mi fissa e non toglie lo sguardo da me: non deve perdere il momento in cui andrò nello studio; quando io, l’ultimo, non ci sarò più vorrà dire che toccherà a lui!
Si apre la porta ed entra una signora claudicante di circa quaranta anni.
«Salve». Incomincio ad innervosirmi, anche questa non sa salutare correttamente. Altro che salve: io le sparerei dove dico io ma non a salve!
«Siete qui per il medico?».
Ma cosa dice questa rompiscatole. La guardo stralunato: vorrei risponderle: «Guardi signora, io sono qui per parlare all’avvocato, il giovanotto invece ha bisogno del geometra per fare un progetto per la casa!».
Ma è una cosa incredibile! Ma se siamo dal medico è perché dobbiamo farci visitare dal medico, o no? Sto zitto e lei: «Chi è l’ultimo?». Ancora! Ora basta! Ma dove sono capitato!
Il nervoso aumenta, muovo i piedi come le pale di un ventilatore; tamburello con le dita della mano sulla sedia sempre più agitato.
«Avanti il prossimo». Ohh meno male! La voce carezzevole della dottoressa mi invita nella sua alcova, pardon, nel suo studio!!
Mi dò una calmata, mi tranquillizzo. Entro; è seduta dietro la scrivania: bella come una diva, potrebbe essere miss Italia delle dottoresse; giovane, sotto il camice una camicetta a fiori con una scollatura che le evidenzia il seno rotondo e procace. Sotto il camice? No, il camice non ce l’ha! I medici moderni non lo mettono più.
Certo che così vestita, con quei capelli biondi, lunghi, ricciuti, con quella vocina dolce come il miele, ma se entra un paziente ammalato per troppo testosterone le salta a cavallo!
Ma forse è quello che aspetta!!
«Buongiorno dottoressa». Lei non alza il visino; non potrò mai sapere se ha gli occhi neri come il carbone, azzurri come il cielo o marroni come le castagne d’autunno.
Guarda immobile il monitor di un computer appoggiato sulla scrivania.
Risponde al mio saluto: «Salve! Cosa vuole?».
Ahimè! Eh no! Anche lei! Sto per esplodere. Arrabbiato divento rosso come una barbabietola.
Le rispondo: «Vorrei una consulenza dell’avvocato per querelare il geometra che ha sbagliato le misure della casa da dare all’impresario!».
Silenzio. Non alza la testa di un’inezia. Chissà di che colore ha gli occhi!
Poi mi chiede: «Quante scatole?».
Come quante scatole! Ma hai sentito cosa ti ho detto?
Forse non ha sentito perché è sorda. Non si può avere tutto dalla vita; poveretta, così bella, con i boccoli ai capelli biondi, con gli occhi di un qualche colore, con la scollatura affascinante e così sorda!!!
Ma alza il bel faccino! Ma guarda se ho il colore dell’itterizia o sono soltanto verde per la rabbia; se sono rosso per una crisi ipertensiva, o anemico come una rapa!
Niente, immobile aspetta che io le dica quante scatole! Povera Venere sorda!
Rispondo ma sottovoce, con un sussurro: «Quattro scatole».
«No! Più di due non si può!».
Ma allora ci senti, e bene! Non sei sorda ma stronza si! Bella e stronza ma non sorda!
«Come si chiama?».
Dico il mio nome e cognome. Schiaccia un pulsante e…zac zac, zac zac da una fessura viene fuori la ricetta.
Ora non si scrive più, si schiaccia un bottone e tach il gioco è fatto, eccola qui la ricetta!
Me la allunga sulla scrivania sempre con la testa bassa. La prendo con le dita tremanti (forse ho il Parkinson o una arteriosclerosi e lei non se ne accorge neppure!).
«Avanti il prossimo» dice con una voce da fare venire la pelle come quella di un tacchino. Ma no! Non ha aperto neppure la boccuccia! Ho visto bene: ha schiacciato un bottone!
Sta a vedere che quella voce lì non è la sua; l’avrà registrata dalla tenutaria di una casa di piacere…
Esco. «Buongiorno». «Salve», mi risponde. Sulla porta incrocio il giovane sciocco che viene dopo di me. «Salve, salve» dice: uno per me e l’altro per la dottoressa.
Furente corro giù per le scale. Esco, ho bisogno di aria fresca. Tiro su una bella boccata di scarico delle macchine. Cammino fino in centro. Ho in tasca una ricetta per due scatole; di che cosa? Per quale malattia? Vedo la croce verde della farmacia.
Entro. «Salve, cosa desidera?». Mi guardo intorno; potrei comprare un ciucciotto, una scatola di pasta al camut, una crema solare, uno spazzolino da denti, un pettine di marca, un rotolo di carta igienica, una scatola di conserva di pomodori… Non vedo medicine. Forse ho sbagliato negozio.
Porgo la ricetta. Il farmacista scompare, torna poco dopo con due scatolini e con un sorrisino beffardo dice: «Sono novantotto euro».
Che sberla! Saranno pastiglie rivestite di foglie d’oro. Madonna che giornata!
Pago; esco; corro a casa. Mi siedo sul divano con in mano una lente d’ingrandimento.
Apro uno scatolino della medicina dal nome mai sentito; tiro fuori le istruzioni.
È un foglietto di quattro pagine scritto in caratteri così piccoli che ci vuole la lente per leggerlo; lo chiamano bugiardino perché dice solo bugie?
Ma non sarebbe stato meglio chiamarlo veritino e fare solo due pagine scritte in grande e dire cose giuste? Leggo i componenti: miscela di aconito e stramonio. Cerco il vocabolario.
Aconito: in piccole dosi antidolorifico, sedativo.
Stramonio: erba del diavolo. Narcotico sedativo. In dosi alte usato dagli sciamani come allucinogeno.
Hai capito la bella finta sorda dagli occhi senza colore?
Bella,con la voce seducente ma bastarda fino alle ossa.
Vorrei ingurgitare tutte le pastiglie per diventare allucinato come uno sciamano e poi affetto da
“bilocazione, lievitazione mistica e cefaloforia” comparirle davanti nel suo studio, sollevato due spanne da terra, con la mia testa mozzata in mano, dirle «Salve!» e farle prendere uno spavento così forte che debba ingoiare pastiglie dorate di calmanti e antidiarroici per tutta la sua vita !!!