Antonio Quiga/Doi sigion d'amor/Due grosse secchie d'amore
DUE GROSSE SECCHIE D’AMORE!
[modifiché]Andavano a venderla, la frutta, su verso i luoghi montani, in due, con un solo carro, per rendere completo il carico, risparmiare e sostenersi in compagnia.
Che il Tonin, fosse uno con la testa sul collo se n’era accorto da un bel pezzo il Rolon della Casa Nuova.
«Da una famiglia come si deve … quel giovanotto!»... si andava dicendo. E se lo prendeva assieme volentieri: ognuno a vendersi la propria merce su per Casapinta, Strona e Crosa.
Un giorno caricavano noci, mele, uva, dirigendosi magari verso il Mortigliengo: Mezzana, Soprana, a giungere fino a Baldicati. Un altro giorno con pesche o pere o fichi, secondo stagione; magari si portavano verso Croce Mosso, o, ad allungare, fino a Pettinengo. Ne facevano di strada.
Da osservare che ne facevano anche dei bei soldi.
Talvolta barattavano con tome o bianche castagne sbucciate da far lesse al latte.
Quando volgevano, di rado, verso la pianura, barattavano con riso, trecce d’aglio o di cipolle.
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«Vai, Bello!» e il carro li aveva portati fuori dalle sagomature scure del gruppo di case del Cantone, quando ancora non albeggiava.
Ora le ruote friggevano di sabbietta nello sforzo del congegno frenante tirato a trattenere l’andare in giù dalla Madonna degli Angeli, dove il pendio curvava verso Casapinta.
Il Rolon alzò la testa a interrogare il cielo: prometteva una giornata piuttosto mogia che allegra, con un sole a far occhiolino tra la nuvolaglia, di quelle giornate che ti lasciano nell’incertezza di tempo strano.
«Appoggia piano, appoggia, Bello... appoggia!» e aggiungeva una mano sulla culatta tesa del suo mulo, neanche potesse aiutarlo:
«Ancora un tratto, Bello, che poi spiana».
Le lame di ferro serranti le ruote emettevano scricchiolii sulla ghiaia a scuotere lor due contadini quanto le ceste, tal che al Rolon ballonzolava la voce a perseguire in correzione la sua Pierina:
«Dimmi un po’ tu se doveva infiorare (mettere il fior fiore dei frutti ad inganno superficiale di) queste ceste: proprio una bella abitudine?! Così ho dovuto ricompormi nelle ceste tutte quante le pere, far tardi, resa poca e farmi guardare appresso. Si meriterebbe... lo so io cosa si meriterebbe: delle sculacciate, non fosse che è già adulta. Sempre pronta per il ballo: nella grossa stalla, nelle veglie, nelle case, sempre a far tarda ora, che ballerebbe nello spazio di un quattro soldi quando arriva la fisarmonica benedetta di quello là, quello che viene da San Giacomo! E, al mattino? Eccola lì: con la sabbia negli occhi, sempre bisognosa di sfruscicarne la cispa! E a una ballata che è una non tralascia sicuro, questa ricciolona!».
Ad un certo punto, il Tonin, appena gli si presentò l’opportunità di un attimo, si infilò come lampo improvviso, una certa cosa che al Rolon si inficcò come un colpo di sbarra tra le ruote:
«Rolon, a me... a me piacerebbe poi persino... la vostra Pierina!».
Glielo aveva... tirato il roccolo retato... che se l’era preparato da tempo belle pronto, approfittando quasi come scusa a rimediare le contumelie a crepitacolo del Rolon verso la figlia.
Il padre, il Rolon, si distese sereno e si rabbuiò di crucci nello stesso botto, come il sole butta l’occhiolino da nuvolaglia e lo ritira dietro; contemporaneamente la sua mano s’infilò sotto il berretto impegnata a darsi una bella grattata… e poi giù a fruscicarsi naso e narici.
È in quel momento che si disse tra sé: - Così, in questo modo la musica… oh, storie, la musica cambia proprio se è così!
Distesasi la pelle sul viso e persino un pochino sbiaditasi, buttandogli addosso i due occhioni allargati in sorpresa, gli disse con un modo che più convinto non si può:
«Ah... ma..., ma è una gran’ brava ragazza... sai, la mia Pierina! Sì, sì... devo dirlo: la... la... laboriosa, proprio laboriosa... nonostante tutto è cresciuta intesa casalinga pur mancandole la buonanima della madre, la poveretta: proprio laboriosa, devo dirlo, non di quelle che fanno il letto quando è ora di andare a dormire, mi spiego!?».
La sorpresa gli ingarbugliava la lingua, che non avrebbe voluto renderla più semi-impedita di così, che così andava già bene: dunque si trattenne, tacque e prese a rimuginare tra sé:
«Comunque, non è che la metto tra grandi possessi... ma, che il Tonin sia un bravo ragazzo: il Tonin è proprio un bravo ragazzo. Vero che come lui non ce ne vogliono dodici per far una dozzina... ma, ma non nuota poi neanche nell’oro, a dirla tutta. Posto che ciò che conta è l’oro che si nasconde, quel giusto luccicore nel cuore... e, da quella parte lì il Tonin, è il Tonin, e diciamolo... che si può dirlo forte!! E noi, siamo noi ricchi di conquibus?
Carattere di un insistente: sia pure per una ragione diversa, era di nuovo lì impegnato in un rimuginamento. Se ne accorse: «Va a finire che mi chiameranno: quel brontolone del Rolon?!».
Strona, Crosa, Baldicati e Soprana... : la strada si era fatta lunga e seriosa... ed il cielo sembrava che a tratti si appesantisse ancor più di nuvolaglia, in altro momento, come d’adesso, che si allargasse in pezze di azzurro nell’occhio del sole.
Oh, Rolon... mai ti era capitato di incappare in tanti incespicamenti così... che le calzature di legno ti sbattevano l’una contro l’alta gemellando gli avvallamenti delle preoccupazioni con i dossi piacevoli, incamminato a dare ascolto all’idea che fosse quella più giusta!
In quel lungo andare, al Rolon montavano dal di dentro quei tali ragionamenti, come a tormento di coscienziosi contadini, come se si trattasse di una matassa di quelle ben ingarbugliate: dalle boccacce, dalle smorfie, dalle rughe raggrinzate in fronte si capiva che il cappio l’aveva perduto; dalle pose distese che il cappio l’aveva riacchiappato e che avvolgeva su il suo gomitolo. Una storta di bocca gli segnava un intrappolamento, una piegata ruga un “ma, che è!?”... e, se faceva un gesto a lascia perdere era per dirsi:
«Ma non stare lì a considerare tutti i peletti, non è forse così, Rolon!?». Se un occhio gli luccicava e sotto le sopracciglia si andava richiudendo spegnendosi... e l’altro si chinava di palpebra come a prendere una mira, forse cercava la risposta che non le veniva lì pronta... ma, se la fronte si spianava, allora abbinava un sospiro a una mano che si aggiusticchiava cintura e pantaloni a soddisfazione.
Studia, ricerca tra tante cose e prevedi, disciogli matassa e recupera, alla fin fine si trovò tra le mani il più bel gomitolo di lana nostrana che potesse immaginare, di lana magari un poco grezza, ma calda, ma buona. Ecco ciò che disse tra sé:
«Ogni ragno trova il suo compagno, sempre» e, gli scappò il detto: «Paribus con paribus(sic)!»... e, per finire, aggiunse a sé stesso: «Non stiamo poi a menar la (futura) chioccia al gallo!».
Quando quella sua voce d’uomo, piena e un tantino rauca, prese a contargli del tempo, della stagione, della vendemmia portata sana in cantina, del raccolto - quegli abbondanti raccolti delle ultime annate - e della itterica afta che aveva evitato, superando così il rischio che gli si vuotasse la stalla, e tutto quanto... un raccontargliela che gli sembrava lo scorrere tumultuoso del Torrente Ostola in piena, il Tonin aveva ben capito: compreso che il tempo aveva cambiato aspetto, che si sollevava la nuvolaglia a lasciar posto al bello, che tutto volgeva al verso giusto tal d’orologio.
Tirò un lungo respiro, sollevandosi anch’egli l’ala del berretto, poi, aggiustandoselo, alzò gli occhi a rimirare intorno: il sereno lo vedevi staccare da piana a montagna.
Allora si vide la sua Pierina tra le braccia.
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Erano quegli occhi vispi, quei riccioli, quell’andare ancheggiato, che gli piacevano. Gli piaceva ballare assieme a lei polche e monferrine.
Con lei tra le braccia la stallona delle veglie diventava il salone del Cassinis, la fisarmonica un’orchestra.
Assieme cercavano dei sogni. E i sogni che li avvolgevano in danza, per loro davano un senso alla vita.
Quanto piaceva a lui quella brace covata al di sotto della così calda cenere, che la osservava divenir brace accesa, brace viva al fuoco dei suoi sorrisi: se gli piaceva ardere felice fiamma calda in un'unica fiamma.
E le rimaneva nel cuore che essa girava, girava, girava un valzer, un rigodone, una monferrina... povera e bella, genuina e sincera come un fiore di prato: i riccioloni nel vento, gli occhi un reticolo risplendente di stelle, innamorata!!!
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Giunti a casa, nel Cantone, erano sempre quei pensieri nelle menti loro.
Saltando giù dalla sponda del carro il Rolon incappò in uno spuntone e lo spintone del tiro gli servì un bello squarcio al gilè:
«Tanto per non far mancare niente da rammendare alla mia Pierina! Porco di un accidenti! Ma con chi c’è poi da prendersela?!».
Mentre allegava all’attracco il suo Bello, che, sollevato dall’imbragatura, gli alitava su di una spalla il nitrire del suo saluto, al Rolon venne da salutarsi così con un’occhiata che andava oltre a quelle parole:
«Se il coraggio ti è bastante… ma attento a ciò che fai, siamo d’accordo, giovanotto!... ».
«Ci vediamo!».
«Sì, ci vediamo!» e la testa del giovanotto fece come un cenno di acconsentimento all’altro consenso.
Loro così, il modo di loro: il giusto modo per dirsi di sì?
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La casa di lui, la casa dei Quiga, era nel mezzo del Cantone.
Il possedimento dei Rolon l’ultima delle case: la Casa Nuova, un breve tratto più in là.
La prozia paterna, la (Catli)nin, una sera, sull’imbrunire, aveva avvicinato la sua Pierina, e fermatala, che veniva dal pozzo a far scorta d’acqua, carica; badato che nessun altro che lei potesse ascoltare, piano, seria, ma una contentezza friccicante nella voce... non esitò a confidarle:
«Sai..., sai, Pierina... il Tonin... il Tonin dei Quiga gli piacerebbe... “parlarti”!».
La povera ragazza: pataponfate, le crollarono a terra le secchie... e, via di corsa in casa con gli zoccoletti che gli scappavano dai piedi.
Ora capiva quegli occhi che la cercavano.
Troppo era bello, troppo che non voleva neanche crederci!
Ma, tosto che rabbuiava: trotroch e trotroch e trotroch... ecco i suoi passi sull’acciottolato!
«Viene, sì viene, è lui che arriva» e, il cuore le saltava di dentro come un capretto.
Quelle zoccole le sarebbero per sempre risuonate nel cuore.