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Sergio Donna/Considerazioni sulla lingua piemontese

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Considerazioni sulla lingua piemontese che molti scambiano per un astruso dialetto

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I.

Il piemontese è considerato una lingua a sé, e senza riserve, dai glottologi di tutto il mondo: una lingua romanza (parallela all’occitano e al Franco-provenzale) e come tale è riconosciuta dal Consiglio d’Europa fin dal 1981, e dall’Unesco, che la ritiene un prezioso patrimonio culturale e linguistico da tutelare.

Eppure molti continuano a porsi e a porre una domanda che per me è diventata un tormentone: “Il piemontese è una lingua o un dialetto?”. Ogni volta che questa domanda mi viene rivolta, rispondo con fermezza e convinzione che il piemontese è una lingua a tutti gli effetti. Ma se riesco a convincere un interlocutore, ce ne sono già almeno altri cento pronti ad alzare la mano per ripropormi la stessa domanda.

Ebbene, con immutata pazienza e spero con adeguata chiarezza espositiva, provo a ripetermi, con la speranza che queste mie considerazioni possano convincere una volta per tutti coloro che si crogiolano in questo dubbio logorante.

Il piemontese ha un suo lessico, una sua letteratura, una sua grammatica e una sua grafia normalizzata. Le sue origini risalgono al XII Secolo (Sermoni piemontesi): una genesi persino più antica dell’Italiano. È certamente una lingua neolatina, ma con una propria identità. Per rendere l’idea, potremmo dire che il piemontese sta all’occitano come il portoghese sta allo spagnolo, o come l’olandese sta al tedesco. Con l’italiano ha ben poco da spartire, se non la matrice neo-latina.

Il termine “dialetto” è nobilissimo quando lo si usi come sinonimo di vernacolo o di lingua locale o regionale, ma diventa discriminante quando venga usato con quel registro sprezzante che equipara una parlata locale ad una volgare storpiatura dell’italiano.

Per la sua plurisecolare e pregevole Letteratura, con pagine di alto valore artistico lasciateci da moltissimi poeti e scrittori subalpini (soprattutto nei secoli XVIII, XIX e XX), ma anche per il cospicuo numero di “piemontesofoni” che vivono in Piemonte o sono sparsi nel mondo, nonché per la musicalità, la tipicità di certi suoni, di certi termini assolutamente autoctoni, di certe frasi idiomatiche, e per la completezza del lessico, non possiamo proprio pensare che il piemontese sia un dialetto.

Il termine “dialetto”, almeno in quell’accezione negativa cui avevo fatto cenno, presuppone la subordinazione, l’assoggettamento di una parlata locale ad una lingua di riferimento, di cui rappresenta una variante, una rilettura, o peggio una deformazione.

Il piemontese non è subordinato a nessun’altra parlata: è una lingua a tutto tondo, indipendente e inequivoca. Tutt’al più è figlia del latino: ma il latino ‒ si sa ‒ è la madre di decine di lingue, sorelle tra loro, ma ognuna con un’identità e una personalità propria.

Io ammiro tutte le parlate locali, dialetti o lingue di minoranza che siano, perché arricchiscono il patrimonio culturale di un popolo. Ma occorre essere precisi nell’uso dei termini e nell’attribuire loro il corretto significato per non cadere in pregiudizi o luoghi comuni fuorvianti. Tutte hanno pari dignità e tutte devono essere tutelate e salvaguardate, quand’anche fossero parlate da una cerchia molto ristretta di persone.

La lingua piemontese è normalmente parlata da un milione e mezzo di persone e compresa da almeno un altro milione e mezzo di piemontesi. Senza contare le comunità piemontesi sparse nel mondo, che ancora parlano correntemente la lingua dei loro antenati emigrati in anni lontani, soprattutto in Argentina (nella Pampa Gringa, nella provincia di Cordoba: Gringa sta per “straniera”, in quanto terra “ripopolata” prevalentemente dai Piemontesi, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento). Qui il piemontese è ancora parlato e compreso da almeno circa 500.000 persone. Così come è parlato da migliaia di discendenti di Piemontesi emigrati in Australia, Canada, Nord America, Francia e in altri paesi europei.

Come la maggior parte delle parlate regionali, il piemontese è stato fortemente penalizzato a partire dall’Unità d’Italia in poi, da Cavour ai giorni nostri. E ciò nell’intento utopico di creare una cultura e una lingua nazionale al di sopra delle diversificate realtà culturali e idiomatiche locali, considerate volgari e vassalle di quella che doveva essere la cultura e la lingua ufficiale, aggregante e dominante. Visione strabica e opaca, che non considera che le diverse realtà culturali e linguistiche territoriali non sono affatto un limite alla formazione di un solido e coeso comune senso di appartenenza ad una nazione, ma piuttosto un arricchimento e un valore aggiunto per tutta la comunità.

Non promuovere, emarginare o addirittura soffocare le culture e le parlate locali, derubricandone la portata e il valore, non solo non è lungimirante, ma è gravemente penalizzante, e crea un impoverimento culturale per tutto il Paese.

Le parlate locali e regionali, lingue, vernacoli o dialetti che siano, rappresentano le tessere preziose di un unico artistico mosaico nazionale. Staccarle, o lasciarle cadere significa sfregiare un patrimonio culturale comune. E allora, difendiamole, promuoviamole e non facciamole morire. Sono il legame con il nostro passato: sono le radici che affondano nella storia di ieri; sono il DNA della nostra identità culturale.

II.

Nella prima parte di queste pagine si è cercato di spiegare i motivi per cui il piemontese debba essere considerato una lingua a tutti gli effetti e non un mero dialetto locale. E non solo perché ciò è riconosciuto universalmente dai glottologi: la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie ‒ che all’art. 1 stabilisce che debbano essere considerate tali “… quelle lingue […] che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato” ‒ annovera infatti, a pieno titolo, il piemontese tra le lingue regionali di minoranza. Il piemontese, inoltre, è riconosciuto fra le lingue minoritarie europee fin dal 1981 (rapporto 4745 del Consiglio d’Europa) ed è altresì censito dall’Unesco nell’Atlante delle lingue che nel mondo sono in pericolo di estinzione, e dunque tra le lingue meritevoli di tutela.

Un’altra frequente obiezione sollevata da coloro che si chiedono se il piemontese debba essere considerato un dialetto piuttosto che una lingua è la seguente: “Come codificare il piemontese come lingua se spesso certi vocaboli, così come la loro pronuncia e alcuni modi di dire si differenziano da un paese all’altro, anche se confinanti?”. Spero di replicare in modo esaustivo anche a questa osservazione.

Tutte le lingue hanno le loro varianti da zona a zona, e persino da borgata a borgata. Talvolta piccole comunità chiuse creano a proprio uso esclusivo una sorta di lessico circoscritto (es: vocaboli specifici del linguaggio infantile o giovanile, o caratteristici di certi ambienti di fabbrica, di officina, di ufficio, o scolastici, ecc.) e financo dei termini destinati al solo ambito famigliare, per renderli incomprensibili a coloro che della famiglia non fanno parte. Oppure, si pensi ai vocaboli gergali malavitosi (che costituiscono una sorta di linguaggio in codice indecifrabile per i non adepti).

Ciò succede anche per l’italiano. Del resto, si sa: c’è una bella differenza tra l’italiano parlato da un triestino e quello di un catanese, oppure tra quello parlato da un pisano e quello di un foggiano o di un sardo. Eppure tutti si capiscono, e rispondono a tono, ognuno usando la lingua di koiné, sia pur con un personale accento zonale, e magari pure con l’aggiunta di tipiche e colorite locuzioni verbali regionali che possono far sorridere  l’interlocutore.  

Chi si sente di appartenere a una stessa comunità culturale sa che usando l’idioma comune (che raggruppa e identifica come una bandiera una stessa comunità storico-culturale) può farsi capire perfettamente dagli altri appartenenti a quella comunità, nonostante le varianti della lingua o le sfumature di pronuncia differenti da luogo a luogo. Un fiorentino si sente forse meno o più italiano di un milanese solo perché parla la lingua nazionale con un accento diverso? Oppure: un piemontese di Fossano si sente forse meno o più piemontese di un benese solo perché pronuncia alcune parole in un altro modo? O ancora: un piemontese di Cigliano si sente forse meno o più piemontese di un abitante di Vische o di Villareggia per il solo fatto che il piemontese di ognuno differisce in alcuni vocaboli? Una lingua è tale se è veicolo di comunicazione di idee, intenzioni e informazioni. Così un braidese che parla il “suo” piemontese potrà farsi capire da un astigiano, da un torinese, o da un cuneese. Il “dialogo” (lingua parlata) e la veicolazione della lingua scritta potranno risultare ancora più facilitati se esiste o se si è creata una parlata comune e convenzionale di riferimento (koiné), con tanto di grammatica e lessico comune, con l’uso di una grafia uniforme e standardizzata.

Anche il piemontese ha le sue varianti (albese, astigiano, vercellese ecc.):  sono i suoi dialetti. Ma esiste un piemontese di riferimento comune per tutti. È quello codificato sui vocabolari, che riporta tutti i termini e le varianti locali. Il piemontese “torinese” è stato considerato quello di riferimento (la più volte citata lingua di koiné), cioè quel piemontese “esperanto” compreso da tutti i piemontesi, di valle o di pianura, di campagna o di città, in Italia come in Argentina.

Concludo ed integro quanto esposto in queste considerazioni sulla lingua piemontese, citando una pregnante osservazione del piemontesista e cantautore Beppe Novajra:

“Le varianti locali della lingua letteraria piemontese si possono chiamare dialetti locali, così come il romanesco o il toscano sono da considerare come dialetti dell’italiano. Supponiamo che fra alcuni decenni la lingua parlata in un mondo globalizzato sia l’inglese, e che gli italiani nella vita quotidiana parlino e scrivano solo più in inglese, riservando l’italiano a qualche lettura o a manifestazioni folcloristiche. Chiameremo allora l’italiano un dialetto? Definire lingua solo quella dei prevalenti (vincitori politici o militari o economici) e degradare a dialetti le lingue dei perdenti è evento che si ripete nella storia e che impoverisce l’umanità, così come la coltivazione di un solo tipo di mela (la più produttiva, bella e redditizia) impoverisce la diversità biologica”.

10 Marzo 2021