Lenga piemonteisa/Linguistica piemontese/Torino - Uso linguistico

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Torino: uso linguistico della città e documenti di cultura e di produzione letteraria[1][modifiché]

«La veste linguistica delle carte torinesi è il latino dell’uso medievale, che di una tipologia comune presenta realizzazioni abbastanza diverse. La sintassi in generale è allentata in sequenze prevalentemente analitiche, le quali rendono il discorso non molto dissimile dalla nostra consuetudine. La morfologia in una parte non esigua delle carte è abbastanza salda, con sostanziale osservanza della flessione nominale nelle funzioni proprie delle terminazioni o desinenze dei casi, come pure di quella verbale; in altre invece risulta totalmente smarrita, con terminazioni latine poste a casaccio, sicché le frasi sono strutturate essenzialmente col supporto delle preposizioni. Si constatano trasposizioni in alcune categorie grammaticali: spostamenti nelle coniugazioni, meno frequenti nelle declinazioni. Il lessico si è aperto ad accogliere non poche voci nuove ovvero nuove accezioni di antiche parole ma continuano in gran parte le consuete significazioni. In sintesi: il quadro generale si deve definire, senza esitazione, di latino volgare, non ancora di volgare neolatino».

«Prendiamo in considerazione grafie come aparuissent, aprehendere, litera, quatuor, permitente, promitentes, atendere, adito (= aggiunto), vaca, saco, agravata, ofero, comissa, comutacio, castelanos, appelaretur, incoruptibili, posesionem, ingresibus, aserebant, posumus, ecc. Non si tratta di grafie costanti, poiché si alternano con quelle di -pp-, -tt-, -dd-, -cc-, -gg-, -ff-, -mm-, -ll-, -rr-, -ss-, ma non sono così rare da dover essere necessariamente considerate tutti quali errori occasionali. Se poi le confrontiamo con le grafie errate per eccesso, del tipo ipercorrettivo di redducere, cannonice e canonnice (accanto al corretto canonice), cautella, diocesana, visso (per viso), lessa (per lesa), ecc., possiamo accoglierle come indizi dell’abitudine nel parlato a ridurre l’articolazione tesa della consonante, che più comunemente dallo scritto definiamo come scempiamento o semplificazione delle doppie, il quale è tratto ben noto dei dialetti settentrionali».

«Altro tratto ben noto è quello del digradamento delle consonanti semplici, quando si trovano tra vocali, che può giungere fino al dileguo o scomparsa. Qui citeremo soltanto pochi esempi, accanto al frequentissimo ricorrere di jornata troviamo una volta jornada; strada pellegrina è anche pellerina; magister è pure maister; si dà accebi (per accepi); canava è la canapa. Di ulteriori attestazioni ci occuperemo più avanti».

«L’incontrare nelle carte torinesi, pur non frequentemente, set, aput, aliquit, illut, si quid aliut, con t in luogo della d finale ( e all’opposto aud, reliquid, con d per t) può manifestare l’articolazione sorda della consonante quando si trovi esposta in sede finale assoluta, che nella parlata locale è fenomeno normale, anche se poco avvertito da chi non vi ponga un’attenzione esplicita. Le grafie cumsegnores per cum seniores (e all’opposto sinium in luogo di signum) e diserunt per dixerunt segnalano fenomeni volgari di vastissima area. Sono invece più specifici la mutazione in sibilante s (di cui è segno equivalente x) della c davanti alle vocali anteriori e ed i, come in fuxina Oberti ferrarij, dal latino officina, che in italiano ha dato fucina; ancor più la riduzione di sc a s, per cui ripetutamente incontriamo resindere, ressindere, accanto a rescindere, nelle clausole contrattuali, e si danno invece come reazione oppositiva le grafie conscignat, conscignavit, poscidebit».

«La grafia varentare più frequente che guarentare, garentire, quella di varire nello stesso significato giuridico (di cui non ho trovato che si opponga guarire), quella di werra accanto a guerra, manifestano un tratto fortemente caratterizzante della parlata locale nella resa nel suono iniziale di tali parole di origine germanica, penetrate peraltro da alquanto tempo nel basso latino. Si possono aggiungere tracce d’incertezza nell’articolazione di o e di u: cuntinetur, de omni cuntili e mensis genoarij, kalendas, febroarij».

«Gli esempi addotti avrebbero potuto essere accresciuti di numero, restando tuttavia rappresentanti di una minoranza. La struttura formularia dei documenti, con la consuetudine della ripetizione, appare sorreggere piuttosto validamente la correttezza della grafia e di conseguenza contenere l’affacciarsi dei volgarismi. Tuttavia nelle parole di antica estrazione ma assunte con nuovi significati oppure derivate con nuovi suffissi da vecchi radicali – quelle che possiamo chiamare parole nuove – si manifestano più evidenti le variazioni fonetiche, ossia di pronuncia.

L’infinito sostantivato havere 36, 117[2], nel senso di possesso, proprietà, mostra il passaggio realizzato di b intervocalica in v».

«Il sostantivo dàtica, oblazione, offerta, dono, tributo (sul radicale del verbo dare, con il suffisso atic ricorrente nei termini di campo giuridico come focatico, terratico, erbatico, legnatico) mostra il dileguo, susseguente alla sonorizzazione, delle due consonanti interne, la dentale t e la velare c, che si trovano in sede intervocalica, nelle forme daia 106, 34, dayarum 106, 60 del genitivo plurale, dais 106, 34 dell’ablativo plurale (con fusione dei due i). I riscontri moderni sono per il primo fenomeno fea, pecora, da feta, per il secondo mània da manica.

Sapatura 106, 70. 81 ecc., come misura di terreni coltivati a vigna, cioè quanto di vigna viene mediamente zappato in una giornata lavorativa, mostra la riduzione a semplice della doppia p, ossia la sua articolazione attenuata e la conservazione di quella che si ritiene l’originale iniziale, che altrove si rafforza in z, ovvero la sibilante rispetto a l’affricata dentale».

«Seitorata 36, 81 ecc., seiturata 106, 61 ecc., saitorata 106, 51, come misura di terreni prativi, cioè quanto di un prato si falcia in un giorno (da sectare, quale forma iterattiva di secare, falciare, oggi siè, e non segare, che si esprime con re + secare, oggi ressiè), mostra l’esito in it del gruppo ct, che si riscontra negli odierni fait da lactum, lait da lactem. La controprova che lo scritto latino prende le mosse dal parlato volgare si può trovare nella disparata ricostruzione di un dialettale liam in due atti paralleli, 106, 57 e 59, che riportano formule similari, relative a pattuizioni di conduzione agricola. I documenti sono di anni vicini, 1243 e 1250; i notai estensori sono diversi».

«Il primo di essi, Iacobus Testa, a proposito della concimazione del fondo, che è una vigna, correttamente scrive: “dictus Ubertus […] promisit […] portare omi anno […] quatuor carratas de […] letamine”; il secondo invece, Taurinus Falurda (il cognome potrebbe essere sintomatico!) traduce l’impegno: “ponendo in dicta vinea tres carratas ligaminis”. Il letame viene a confondersi con il legame, in sostituzione non sensata ma linguisticamente motivata. Laetamen e ligamen, secondo la normale evoluzione fonetica, hanno nel dialetto lo stesso sbocco liam, per il dileguo rispettivamente di t e di g e conseguente adattamento vocalico. Nell’uso moderno la parola viene impiegata nel significativo di concime, mentre la normalissima forma diminutiva liamet è nastrino e l’altro derivato liassa è legaccio».

«La constatazione si può fare anche altri casi, colti sveltamente a modo di esempio.

Nell’inventario dei beni mobili della “Domus Sepulcri […] de Puteo Strate” del 1264, 106, 58, il rettore annovera “cauderiam unam de aramo”. La l di cal(i)daria, che resta nell’italiano caldaia, in appoggio alla d, è diventata u; il suffisso aria si sta avviando alla forma era secondo le norme del dialetto; la terminazione di aramo tenta di restituire a una flessione latina il dialettale aram, che, a differenza dell’italiano rame, conserva, adattata, la prima sillaba del latino aeramen.

«In un testamento del 1228, 106, 43, il testante, che è notaio, oltre il denaro che riconosce alla moglie “pro dota sua”, dispone “quod ipsa habeat culcitram unam et unum pulvinar et duo linteamina et suam bonam cottam et suum bonum mantellum”, ove la cotta non è certo l’indumento ecclesiastico o la sopravveste cavalleresca ma la femminile gonna o gonnella, secondo il dialetto.

In un atro testamento di pochi anni anteriore, 1221, 65, 103, la madre lascia alla figlia, “lectum suum et suos pannus et quinque archas et duos botallinos et tinam unam et calderiam unam et medietatem omnium aliarum subpeltiliorum [sic] et asiamentorum domus”, ove, tra gli oggetti e le suppellettili che ci sono familiari, la nostra attenzione si fissa sulle botticelle, ancor oggi botalin, e sulla denominazione generica degli arnesi o attrezzi di uso domestico, oggi asi, che nel latino è compita dal suffisso amentum».

«L’esemplificazione potrebbe continuare a lungo: vien fatta menzione di pusca, 106, 43, da erogare ai poveri, che non sarà l’acqua acidulata ma il vinello, secondo il dialetto; come indicazione di confine o coerenza si trova ripetutamente segnalata una bealeria, 44, 21 App.; 65, 103, ecc., oppure una riana, 44, 26 App.; un bosco viene venduto a condizione che lo si lasci tale e non lo si possa arruncare, 65, 99. Si fa diminutivo di vigna con il suffisso ot, al maschile, sicché incontriamo alium vignotum e peciolam unam vignoti, 106, 92. Di un campo le porche, ossia gli spazi tra solco e solco, i misuranti le indicano come prosias, 106, 81(nell’attuale grafia dialettale preus) e in diminutivo profeta, in un documento del 1278, mentre in altro anteriore di più di un secolo, 1168, 36, 32, troviamo ripetutamente plosias: dalla variante grafica possiamo trarre argomento per la supposizione (che deve restar prudente) di incertezza nel articolazione di r e di l in determinate circostanze, né il fenomeno ci meraviglia, tenuto conto della larghissima area di diffusione della rotacizzazione di l nel Piemonte meridionale».

«Possiamo ancora rilevare che nella formula promiserunt et sumonuerunt, 36, 117, è un raro relitto del latino submonere, che continua nel moderno smon-e, offrire, dichiararsi disposti a dare.

A questa serie, dichiarandola estensibile quasi senza fine, occorre adesso porre termine».

«Questi che abbiamo passato in rassegna sono come spiragli che si aprono sulle caratteristiche del volgare parlato. In un’altra categoria di voci si spalancano invece delle vere finestre. I nomi propri di persone e di località, anche se in origine possono aver avuto un preciso valore significativo, progressivamente tendono e finiscono poi per assumere una mera funzione indicativa. Emmanuel in ebraico è Dio con noi; Ireneo dal greco, F(r)ederico dal germanico equivale al Pacifico del latino; Neapolis è in greco città nuova; Caltagirone è nell’arabo il castello o la rocca degli spiriti.

Nel contesto di un’altra lingua, diversa da quella che li ha prodotti o in cui vengono abitualmente usati, possono anche essere tradotti, ma per lo più vengono presi così come sono inseriti, al più con qualche adattamento. I nostri documenti torinesi in latino pullulano di nomi schiettamente volgari, in specie quelli di località minori e quelli di persone cui viene attribuito qualche epiteto; l’eventuale adattamento non riesce a celarli. Se il locus ubi dicitur in Longafame, 106, 48, si può accettare ancora come latino, ahimè subito colto anche da chi quella lingua non mastica, ad Casaças, 106, 44, di latino non ha più che la preposizione e la terminazione, che, rimosse, consentono la ricostruzione Casasse allora come oggi».

«Il locus ubi dicitur ad Perer, in cui si trova un campo, ci può lasciare incerti se sia da ricondurre a un petrarium, zona di pietre, oppure a pirarium, pianta o piantagione di peri, ma certo la forma è ormai volgare anche se la data è alquanto alta, 1105, 65, 4. In Belveir 1278, 106, 81 sembra potersi intendere come belvedere. In Monveil del 1214, 69.3, 49, si riconosce come la resa immediata del parlato, mentre è più frequente la trascrizione latina Monte Vetulo 1172, 69.3, 58, in Monte Vetero 1203, 69.3, 41; 1226, 69.3, 62, in Munte Veteri 1220, 69.3, 56, ovviamente oggi Monte Vecchio nella denominazione ufficiale. L’indicazione del 1300 in Valle Gelata, 44, 29 App., appare chiaramente per metà volgare nel 1182, in Valle Gelà, 44, 50, ove l’accento è da integrarsi dal moderno editore. In locus ubi dicitur Testa de Prato 1278, 106, 81, oltre che nella struttura preposizionale della specificazione, il volgare è nell’accezione del primo sostantivo; l’opposto viene indicato est in Culata Vinchile 1244, 44, 21 App., l’estremità di Vanchiglia».

«La struttura segnalata si arricchisce dell’articolo in via de la Plancha 1278, 106, 81, che è anche detta senterium de la Planca 1231, 106, 45: senterium è un volgarismo da semitarium e Planca preannuncia il dialettale pianca, passatoio, ponticello. L’articolo determinativo, che è fortissima marca volgare, compare anche in altre strutture preposizionali come jacet en la Val, 1278, 106, 81, e pure in assoluto, la Rivera, 1278, 106, 81, da Riparia, e in territorio ubi dicitur la Crava 1278, 106, 80, di fronte alla più frequente denominazione Mons Capre, che si può identificare con l’altura che sovrasta la testata della collinare val San Martino. Altro rilievo collinare è il podius ubi dicitur lo Poio de la Broca 1278, 106, 80. Assai curiosa è l’apposizione dell’articolo volgare al sostantivo conservato nella forma latina in lo Podius de Gurmai, 106, 80».

«Si potrebbe avviare la ricerca della più antica data di documentazione dell’uso dell’articolo: come determinante di antroponimo possiamo segnalare al momento Johannis de la Roca 1156, 65, 28. Sono reperibili persino denominazioni volgari a componente verbale, se è lecito interpretare il locus ubi dicitur in Trencibuel, in finibus Sancti Viti 1233, 106, 47, come trincia, taglia budello; non elegante ma realisticamente espressiva, ubi dicitur in Pissa Vacha 1252, 106, 60».

«Nella denominazione delle persone, soprattutto nel secondo nome in cui è da vedersi un soprannome individuale che progressivamente tende a divenire ereditario e a costituirsi nome di famiglia - quello che oggi noi chiamiamo cognome - appare alquanto frequente il tratto volgare della caduta della vocale finale atona. Di proposito non prendiamo in considerazione i nomi di origine germanica, in cui la terminazione consonantica potrebbe attribuirsi alla conservazione di forme originali, non latinizzate, benché la consuetudine sia di aggiungere una desinenza latina anche a tali nomi».

«Abbiamo dunque: Arnaldus Vasc 1179, 65, 43 e Willelmus Vasc 1199, 65, 64; Petrus Bec 1250, 106, 59;

Ardicionus Truc chiavaro di Torino nel 1230, 65, 116; Johannes de Scroc 1228, 106, 44; Johannis Blanc 1160, 36, 25; Petrus Mus 1191, 65, 53.59, di fronte ai più frequenti Mussus; Gandulfus Gros 1156, 69.3, 28; Petrus Bel 1180, 44, 47 e Taurinus Bel 1219, 55, 97; Johannes Novel 1188, 36, 80; Albertus Morel 1191, 44, 54; Petrus Lardel 1179, 36, 60; 1181, 65, 47; ecc.; Petrus Porcel 1214, 69.3, 49».

E via così per altre decine e più di esempi addotti dal prof. Giuliano Gasca Queirazza.

«Nella scelta di questi pochi esempi, tra i molti che i documenti ci offrono, è stata colta anche l’opportunità di segnalare anche terminazioni in er per il latino -arius, suffisso di agente (che in italiano produce -aio). Il femminile -aria compare in Bergera 1256, 65, 257, che, in quanto attribuito a un nuncius comunis, deve avere origine matronimica. La voce compare in forma più vicina all’etimo berbericarius, pastore di pecore, in un atto del 1230 nel nome di Johannes berbicarius, 69.3, 65, ma non è chiaro se si tratti di nome personale o appellativo, poiché è seguito immediatamente da un Ugoninus porcherius: potrebbero indicare le umili ma importanti funzioni di due dipendenti del monastero di San Pietro monacarum, della cui serie di testi essi chiudono la lista. La terminazione è(r), era, è ancor oggi ben viva: accanto a muliné abbiamo mulinera».

Petrus Clocherius figura come teste in un atto del 1132, 106, 16: oggi ciochè è campanile, ma attribuito a persona poteva significare il campanaro Fredericus Zavaterius 1283, 44, 162, doveva riferirsi all’artigiano che si occupava delle ciabatte, ma non si deve trascurare che savatè significa anche percuotere battere, come si batte il cuoio. Connesso, se non identico è il nome di Petrus Soaterius 1196, 44, 58: oggi soat o sovat è il cuoio per fare cavezze ai giumenti, e simili. Girardus Formagerius 1231, 106, 45B, non ha bisogno di commenti sull’origine della denominazione».

Segue un’altra pagina di questi nomi, soprannomi, altre curiose e interessanti denominazioni che, purtroppo, devo omettere per carenza di spazio.

«La raccolta di questi esempi mostra che, attraverso l’analisi del dato antroponomastico e toponomastico in cui l’uso orale si è fissato eludendo il trasferimento linguistico della traduzione, con il subire al massimo un adattamento che consente un agevole recupero, si può ricostruire in misura non esigua il lessico del volgare in uso e in parallelo delineare la traccia essenziale dei fenomeni fonetici; resta invece in gran parte celato il dato morfologico, sia nominale che verbale.

In questo modo e con questi limiti, pur in carenza di testi formalmente in volgare, si rende possibile instaurare un confronto con le documentazioni esplicite dei tempi successivi o dei luoghi diversi in cui la recezione del volgare nello scritto sia stata più abbondante, sino a diventare progressivamente la norma».

«Possiamo tentare una sintesi compendiosissima, in termini tecnici.

Tra gli elementi che a noi sono noti a posteriori, risultano confermati;

  1. la caduta delle vocali atone finali, esclusa la a che resta inalterata;
  2. il digradamento della articolazione consonantica, con la attenuazione delle consonanti tese, altrimenti dette doppie, primarie e secondarie (pp> p; bb>b; tt> t, ecc.); con la sonorizzazione in sede intervocalica delle consonanti sorde fino a la fricativa per la labiali (p> b> v) e le labiodentali (f > v), sino al dileguo per le dentali e le velari (t > d > O; c > g > O);
  3. l’assordimento delle consonanti sonore rimaste esposte in finale assoluta per la citata caduta delle vocali atone;
  4. la sibilazione delle palatali davanti alle vocali anteriori e/i (c > s; sc > s);
  5. la riduzione del gruppo ct > it;
  6. la riduzione dei gruppi lt/ld/ls/ln > ut/ud/us/un;
  7. la riduzione dei gruppi lp/lb/lm/lc/lg > rp/rb/rm/rc/rg;
  8. la riduzione dei gruppi pl/bl/fl/ > pj/bj/fj;
  9. l’esito v per l’iniziale w nelle parole di origine germanica;
  10. la prolessi in arj > air con successiva chiusura del dittongo > er».

«Non è manifesta l’articolazione di vocali turbate (ö/ü), ma l’indicazione grafica ne è stata alquanto tardiva e incerta; c’è invece traccia della ulteriore chiusura della o chiusa, anche davanti a n (mont/munt). Non appaiono segni perentori della palatizzazione dei gruppi cl/gl né di lj, anche se si può pensare che il fenomeno fosse già compiuto. Questi tratti configurano la parlata di Torino, quale la si può arguire dai dati forniti dallo scritto dei documenti che sono giunti sino a oggi dai primi tre secoli del nostro milleni. Secondo la classificazione moderna la possiamo definire un volgare neolatino di tipo gallo-italico nord occidentale».

«La sua specificità nella diversità o la somiglianza o l’identità con le parlate degli altri agglomerati urbani della regione, potrà essere precisata soltanto attraverso un pari esame analitico dei loro documenti. Il confronto si avrà da fare non solo con i centri maggiori, come Asti, Vercelli, Ivrea, Pinerolo ma pure con Chieri, Chivasso, Ciriè, Avigliana, Carignano, o la cerchia ancora più stretta di abitati che abbiamo già indicato. Nella Storia di Torino uscita alle stampe circa ottanta anni fa, si incontra questa asserzione:

Testi da non molto pubblicati assicurano che in tutta la regione subalpina già si parlava il dialetto, o, piuttosto ogni città aveva un suo proprio dialetto “romanzo” affine a quello delle città circostanti, e questi dialetti si avvicinavano allora a quelli della Provenza, assai più di alcuni patois odierni delle nostre Alpi.

Così doveva essere anche in Torino […][3]»

«In realtà dei due testi «dialettali sicuramente piemontesi anteriori al secolo XIV», cui si fa riferimento nella nota, il primo, «quello detto di Caselle», è ben più tardo, probabilmente dall’inizio del XV secolo; il secondo «quello canavesano»,è da attribuire piuttosto alla prima metà del XIV secolo(è da spostare al Vercellese o al basso Monferrato).L’assicurazione quindi viene meno per mancata sincronia dei testi. Alcune testimonianze valide sono venute successivamente alla luce: tuttavia le scritte dei mosaici pavimentali delle basiliche di Sant’Evasio a Casale e di Santa Maria Maggiore a Vercelli, la cui età si può fissare tra la metà dell’XI secolo e gli inizi del XII e le poche glosse volgari nel Dottrinale di Maifredo di Belmonte composto in Vercelli nel 1225, sono di consistenza troppo esigua per farne il fondamento di un’asserzione categorica generalizzante.»

«È ragionevolmente da attribuire all’inizio del XIII secolo, se non già alla fine del XII, il ben più consistente corpo dei Sermoni Gallo-Italici, pubblicato da Wendelin Foerster nel 1879 e in seguito studiato a più riprese, ma di cui non si è ancora giunti a una determinata collocazione nello spazio. Alcuni indizi suggeriscono di connetterlo a una delle importanti istituzioni religiose della zona alpina, in un solco vallivo di comunicazione con l’oltralpe, per cui meno appropriata diverrebbe la denominazione di Sermoni Subalpini e meno persuasiva l’estensione per analogia all’area torinese».

«Per Torino vale invece la generica ma esplicita asserzione di Dante, nel De vulgari eloquentia I. xv. 8, che le attribuisce una parlata propria, da suo punto di vista dichiarata non pura, anzi detta bruttissimo volgare, così come quello di Alessandria, la recente città che ne appare distinto, e quello della remota Trento, accomunata alle precedenti dalla prossimità ai confini d’Italia[4]. La redazione del trattato dantesco è da porre con tutta verosimiglianza nel 1303-4: l’esperienza linguistica dell’autore, diretta o indiretta, matura nel XIII secolo e ad esso si può riferire».

«In questa sede non c’interessa il giudizio di Dante sul valore estetico della loquela di Torino né sull’essere remota dal volgare illustre d’Italia di cui egli è alla ricerca. L’argomento della commistione con argomenti estranei, che vale sia per la frontiera nord-occidentale, sia per quella nord-orientale nel caso di Trento, nella sua genericità può essere accettato: ciò anche, anche se noi la designeremmo con altri termini, come connessione ad aree lessicali particolari, somiglianza di alcuni fenomeni evolutivi fonetici e morfosintattici. Ma probabilmente per Dante il nome della città è rappresentativo di tutta questa parte estrema d’Italia negli ultimi lembi subalpini, cui da il riconoscimento di specificità rispetto alle zone che fanno capo al Alessandria, a Genova, a Pavia, a Milano, ecc».

«Non si può invece accettare senza ulteriori prove, che sono da reperire, quella parte dell’enunciato sopra addotto della Storia di Torino, ove si afferma che quello della città, con gli altri dialetti di tutta la regione subalpina «si avvicinano allora a quelli della Provenza assai più che alcuni patois odierni delle nostre Alpi»: è affermazione gratuita. Se sottilissime venature si avessero a riscontrare, bisognerà indagarne le motivazioni e la provenienza. Esige un chiarimento anche il seguito dell’asserzione che ci ha trovato non consenzienti.

[…] in Torino, […] del resto, s’intendevano assai bene i canti epici e le narrazioni romanzesche dei «giullari» di Francia, le liriche appassionate d’amore, di sdegno o di politica, dei «trovatori» di Provenza e dei loro imitatori cismontani[5].

«Questa non è condizione peculiare della nostra città: tale fenomeno coinvolge tutti i centri abitati dell’Italia settentrionale frequentati dai giullari; trovieri e trovatori ottengono quasi dovunque benevola accoglienza, in particolare presso le corti signorili, dal Monferrato sino alla marca Trevigiana. Torino non è mai nominata nelle composizioni dei poeti provenzali, a differenza di Asti, di Saluzzo, di Pinerolo e persino di Caselle».

«Molto esili e discutibili sono le tracce di presenza di singoli trovatori in città; a diverse interpretazioni si presta il dato antroponomastico di Nicoletto di Torino». Dal punto di vista linguistico ha molto peso rilevare che Torino si trova su quello che è stato opportunamente definito uno dei più importanti assi europei di transito. Sulla strada Francigena[6] passano, con file di bestie da soma che portano le merci tra l’Italia e oltralpe, i conducenti, i mercanti e i loro famigli; passano le frotte dei pellegrini romei e giacobei, le comitive di ecclesiastici che accompagnavano i vescovi quando vanno a Roma per le periodiche visite ad limina apostolorum, i nunci o incaricati di affari dei signori, i viaggiatori per ogni motivo e ogni necessità. Passano, ragionevolmente restano; parlano, nelle proprie lingue, forse attenuate e adattate per l’esigenza della comprensione. Da molte direzioni e per molte strade sono giunti spesso, troppo spesso, corpi di uomini in arme: delle truppe dei comuni di Vercelli, di Asti, di Chieri, dei Marchesi di Monferrato e dei Conti di Savoia; le scorte del vicario angioino, quelle di vicari imperiali e degli stessi imperatori di passaggio».

«Torino è in questi secoli oggetto di grossi appetiti, piuttosto che soggetto di intraprendenza politica e militare. Il potere di più larga cerchia d’influenza è quello vescovile, su una diocesi assai vasta, che comporta un’ampia rete di rapporti e il relativo scambio di informazioni. Ai monasteri e conventi torinesi affluiscono religiosi anche di altre località. Infine, sia pur temporaneamente, risiedono ed operano in città podestà e giudici forestieri. Da queste situazioni e circostanze e dalle vicende storiche è stata condizionata la parlata torinese. Piccola città, nelle poche migliaia dei suoi abitanti, impegnati nel lavoro delle terre intorno alle mura e nelle comuni attività artigianali, attenti con interesse del flusso di chi passa. Non alte voci di cultura: quello che abbiamo potuto cogliere è l’eco spezzata, del conversare quotidiano. Alla conoscenza di Torino nel corso dei secoli è anche questo, pur modesto, un apporto».

Note[modifiché]

  1. Scritto del prof. Giuliano Gasca Queirazza S. J. (e in nota 95 di G. Borghezio e C. Fasola (a cura di) Le carte dell’Archivio del Duomo di Torino (904-1300, con appendice di carte scelte 1301-1433), Torino 1931 (BSSS, 106).
  2. Brani tratti a iniziare dalla pag. 869 alla pag, 883 del 1° volume de la STORIA DI TORINO Dalla preistoria al comune medievale – Giulio Einaudi Editore 1997 e trascritto per gentile concessione del medesimo.
  3. Indichiamo così d’ora in poi con il primo numero il volume della biblioteca della Società Storica Subalpina, con il secondo il documento da cui gli esempi sono tratti.
  4. T. Rossi e F. Gabotto, Storia di Torino, I, Torino 1914, p. 382.
  5. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, ridotto a miglior lezione, commentato e tradotto da A. Marigo,Firenze 1957 pag.132: «[…] dicimus Tridentum atque Taurinum nec non Alexandriam civitates metis Ytalie in tantum sedere propinquas, quod puras nequeunt habere loquelas; in tantum quod, si etiam quod turpissimum habent vulgare, haberent pulcerrimum, propter aliorum commixtionem esse vere latium negaremus […]»
  6. Cos’è la strada o la via Francigena. Ovvero “La strada originata dalla Francia”. Questa Via ha origini molto antiche e seguiva diversi percorsi; già nell’876 era conosciuta come “Via della Fede”. Il percorso che ci interessa portava i pellegrini dal Nord della Francia e dall’Inghilterra passando dal passo del Gran San Bernardo, indi Aosta e Torino, arrivando sino a Vercelli. Da qui la strada si sviluppava lungo l’itinerario che passava da Pavia, Piacenza, Fidenza, Passo della Cisa, Pontemoli, Lucca, Siena, Bolsena, Viterbo, Roma, che era la meta agognata dai fedeli. Non era una strada vera e propria ma un percorso diventato poi importante per gli scambi commerciali e strategico per gli eserciti, non solo piemontesi e di grande importanza per la crescita culturale Europea del medioevo. Grazie a l’opera dei volontari la Via è tata ripristinata e a tutt’oggi, è ripercorribile.