Lenga piemontèisa/Linguistica piemontese/Introduzione

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Introduzione[modifiché]

Prima di parlare di lingua piemontese, che è l’argomento di questo lavoro, è essenziale fare una distinzione netta fra “piemontese parlato e piemontese scritto”; due funzioni diverse molto discusse, a volte in modo improprio, per la scarsa conoscenza e importanza dei segni grafici e diacritici, elementi che determinano la variazione dei suoni linguistici (foni).

La Grammatica normativa e la Grammatica storica sono due branchie della Grammatica generale che indicano due capitoli diversi di quest’ultima. La prima insegna ad applicare in modo giusto le norme nel parlato e in particolare nello scritto; la seconda la storia di una lingua nel tempo.

Ripercorrere la lunga strada attraverso il tempo per conoscere la storia della comunicazione orale, è un viaggio nello straordinario mondo della parola. Esso mostra, all’umile scriba, la via giusta per comprendere il “perché”, l’uomo abbia sentito la necessità di trasformare le parole in segni, seguirne il percorso fintanto che essi siano diventati scrittura. Quindi:

Scrittura è esprimere concetti o suoni con elementi visibili predisposti in una serie, mobili e composti secondo norme determinate. Concetti espressi con la parola e che raccostati, formano gli “atti” del pensiero, a loro volta espressi con proposizioni, frasi, teoremi e simili[1].

Questa “invenzione” dell’uomo, è stata il “perché”, il mezzo, per raggiungere una meta, che è la necessità materiale, intima, e pure spirituale di lasciare un segno della propria esistenza scalfito in una sempiterna pietra. Sono i primi graffiti, quelli che per noi oggi sono preziose testimonianze primordiali di cultura, di civiltà; è il primo vagito della “conoscenza ai posteri”.

Questo scritto intende semplicemente dare l’idea di cosa significhi e quanto sia importante il senso e il valore di questi primi segni e disegni che significano parole dette e poi scritte; esse datano la lunga, faticosa storia dell’uomo nella ricerca di socializzare e comunicare in qualsiasi lingua naturale conosciuta.

Le “lingue ancestrali” (dal latino antecessor “predecessore”), sono le lingue dei nostri antenati, senza distinzione alcuna, non esiste classificazione nel linguaggio. Il formulare parole significa parlare, comunicare con altri. Ogni parola è un tassello importante per la creazione della lingua. Una “fabbrica di parole” che da sempre definisce e distingue un gruppo, una comunità, un popolo, secondo la posizione geografica, del luogo, del clima; sono fattori che hanno influito sul linguaggio condizionando e arricchendone l’idiomaticità. “Espressioni idiomatiche” sono quei modi di dire caratteristici di una lingua e solo in quella lingua.

Ne scrivo alcune in piemontese (si trovano nella “Grammatica piemontese” di Michela Grosso).

-Ven-e a taj – essere utile; Ciapé le grive – essere intirizziti; A buté gròss – tutt’al più; A ras – colmo.

Lingua ancestrale” non vuol dire lingua immobile, scevra dai cambiamenti, è all’opposto una “lingua avita”, un potente richiamo all’identità.

Il piemontese è una lingua ancestrale e come le altre ha subito i contraccolpi del tempo e degli accadimenti buoni e meno buoni; una vera lotta per la sopravvivenza, una corsa sfrenata attraverso i secoli, mantenendo tuttavia i tratti linguistici della sua unicità, che nulla hanno a che vedere con l’italiano.

(Tuttavia è da tenere ben presente che lo studio delle lingue arcaiche evidenzia spesso somiglianze fonetiche tra parole con lo stesso significato, per cui sono per definizione “improntate”. Per esempio, “fratello” si dice brother in inglese e frère in francese, dalla radice latina frater, a sua volta collegata alla parola sanscrita bhratr. Tutto questo ci rivela che le parole sono semplici suoni che rimangono associati allo stesso significato per millenni, consentendo una ricerca nel tempo sulla loro origine e sulla loro evoluzione).

Tutti i dialetti in realtà sono lingue naturali, la cui ricchezza è direttamente proporzionale ai valori culturali dei popoli che le parlano. Gli stessi locutori le tramandano da quando la voce era un suono disarticolato, poi, col tempo, a formare parole, comporre frasi, custodendo come suoni preziosi l’oralità, creandone nuove accanto alle vecchie, ampliando la capacità della fonia e dell’apparato produttore di suoni, ovvero la fonazione, di cui fa parte la branchia della fonetica articolatoria.

La fonetica articolatoria è un campo vasto e complesso che a sua volta è suddiviso in diversi ambiti. Qui conosceremo alcune nozioni elementari della percezione linguistica, che è una disciplina che fa parte della Fonetica uditiva. Quindi, parleremo di suoni linguistici detti foni e le loro specifiche caratteristiche espresse nelle varie parlate locali.

S’intendono individui non monolingui, come oggi vuole la globalità, la pianificazione; ma plurilingui abili, capaci e veloci nell’apprendere e nell’esporre.

Molti “puristi”, pochi peraltro, osteggiano i dialetti e le tradizioni popolari, ovvero, il folclore, definendolo cultura di “taglio basso”, una corrente di pensiero degna del conte Carlo Vidua(1785/1830), un nobile piemontese unitario italianista che con Galeani Napione erano, già a quei tempi, acerrimi antidialettali.

Il folclore non può essere disgiunto dalla sua lingua di tradizione; sarebbe come dire a Giandoia di parlare in italiano.

Il grande folclorista siciliano Giuseppe Pitré indicò chiaramente il perimetro nel quale si muovono queste discipline, egli diceva: “Fiabe e favole, racconti e leggende, proverbi e motti, canti e melodie, enigmi e indovinelli, giochi e passatempi, giocattoli e balocchi, spettacoli e feste, usi e costumi, riti e cerimonie, pratiche, credenze, superstizioni e dubbi, tutto un mondo palese ed occulto di realtà e d’immagine si muove, si agita, sorride, geme a chi sa accostarvisi e comprenderlo nella lingua in cui si esprime”.

La “lingua ancestrale” detta (sbagliando) anche dialetto, è la vera lingua che esprime materialmente e spiritualmente chi la parla; è lo specchio fedele della persona; la gestualità, la forma espressiva della parlata, gli accenti, le pause, il trattamento di vocali e consonanti ci dicono senza tema di errore chi è e da dove viene. Tutto questo è una materia di studio importante che c’insegna quali e cosa sono le differenze dei fonemi in una lingua che possono essere anche in opposizione.

Se è in Italia; un piemontese, un siciliano, un sardo o altro, la differente parlata lo distingue dagli altri e lo contraddistingue, anche se parla in italiano, perché il suo DNA linguistico è insito nella pronuncia.

Un valore inestimabile e molto raro è questo “mosaico” di varietà “dialettali dell’Italia”, che pochi altri paesi possiedono. D’altra parte l’italiano è una lingua ibrida, messa insieme con il toscano, il fiorentino e altro, acconciata all’uopo in una sorta di teosofìa, per darle un valore quasi mistico in una dimensione nazionale importante. È l’idea di unire politicamente tutti gli italiani in una sola lingua; una volontà unitaria monarchica, contraria ai valori identitari delle proprie radici e che ha imposto questa visione forzata e innaturale in un paese “troppo lungo” e diverso in tutto: il Sud quasi confina con l’Africa, mentre il Nord confina con la Francia, Svizzera e altri paesi di confine.

Ma queste diversità, non solo linguistiche ma di culture, tradizioni stile di vita sono bellezze utili alla conoscenza; uniti nella diversità, così dovrebbe essere in questo meraviglioso crogiuolo di genti italiane in questa lunga e pure straordinaria penisola. Ebbene, l’Italia repubblicana ha fatto molto peggio della monarchia varando leggi contro le lingue regionali e le loro culture millenarie in nome dell’unicità linguistica politica; il Piemonte è il capofila, degradando il nostro piemontese a “dialetto italiano” senza il minimo buon senso e una sconfinata ignoranza in materia.

Apostrofi, accenti, segni diacritici e d’interpunzione, elementi di fonica e compitazione.

Ritornando brevemente al discorso sulla lingua italiana, è interessante notare che è usato poco o nulla l’accento fonico grave e acuto sopra le vocali e – o, mentre, al contrario, si dovrebbe segnare, perché l’accento indica due suoni diversi delle vocali e differenzia un termine dall’altro; si dice che sono omografe. Esempi:

con é (accento acuto) con è (accento grave) con ó (accento acuto) con ò (accento grave)

accétta = scure accètta = verbo accettare fósse = verbo essere fòsse = buche, scavi

légge = norma, regola lègge = verbo leggere cólto = istruito còlto = verbo cogliere.

Nel metodo d’insegnamento approssimativo e superficiale che adotta oggi la scuola, queste differenze neppure si possono cogliere, perché si parla un italiano “moderno”, ovvero, condito con aggettivi e termini d’origine incerta e che troppo spesso sconfinano nel triviale. Nel piemontese scritto gli accenti sono una necessità, poiché nella parlata indicano suono e senso differente persino nel medesimo termine.

Esempio: il sostantivo son in italiano significa suono; ma son è anche la prima persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere (mi i son); tuttavia se dico e scrivo sòn (con l’accento grave) diventa un aggettivo dimostrativo, che in italiano vuol dire questo.

L’accento fonico ha completamente trasformato il senso del termine.

Dopo questa necessaria digressione, in definitiva, solo una buona pratica serve per apprendere la modulazione dei lemmi nelle diverse forme eufoniche della lingua parlata, (la branca della fonetica percettiva), del lessico, per capire l’importanza e il significato degli apostrofi, degli accenti e altri segni diacritici della lingua scritta; ovvero la “koiné” (termine che deriva dal greco διακρίνω, e significa “distinguere”).

Note[modifiché]

  1. Silvio Curto ne: La Scrittura nella storia dell’uomo.